lunedì 31 gennaio 2011

Ripensando a Bruno Ciari. Saperi e non saperi di una cittadinanza pedagogica *

Roberto Maragliano

Sono entrato in “Riforma della Scuola” nell’autunno del 1970, dunque a pochi mesi dalla scomparsa di Ciari, e ci sono rimasto, svolgendo vari ruoli in redazione e direzione, fino alla fine del 1992, fino a quando, cioè, il mensile di intellettuali e professionisti che facevano riferimento al PCI ha interrotto le pubblicazioni.
Ho potuto così non solo assistere ma anche prendere parte ad un’elaborazione e ad un confronto sui vari temi della riforma scolastica (politico- istituzionali, pedagogico-didattici, cultural-professionali) che si sono prolungati per più di vent’anni e che sovente hanno fatto riferimento non solo alle idee ma anche alla testimonianza di vita del “maestro” Bruno Ciari. Ho potuto anche seguire la parabola di quella elaborazione, sia la fase ascendente sia quella discendente.
Sono passati altri vent’anni, o quasi, dalla conclusione dell’esperienza, che fu editoriale e non solo.
Non posso non chiedermi e domandare a tutti noi cosa sia rimasto dello spirito di Ciari e di “Riforma della Scuola”, oggi, al di là di quelli che si incontrano qui per un doveroso e sentito omaggio.
Di fatto, io credo, siamo, dobbiamo essere qui anche per una ragione politica: quella che, muovendo da presente, ci sollecita a confrontare idee e impressioni sul tracciato di questi quarant’anni, i primi venti durante i quali le parole di Ciari hanno trovato eco nelle pagine della rivista, oltre che nelle attività di tante scuole e amministrazioni, e i secondi nei quali questa eco si è andata fortemente attenuandosi.
Il titolo del convegno dà un orientamento a una tale riflessione, mettendo al centro dell’attenzione comune il tema della controriforma scolastica, e chiedendoci dunque di partire da lì, anzi da qui. È evidente che la scelta del termine è stata fatta a ragion veduta. E allora non risulterà ozioso domandarsi da dove sia mai venuto questo movimento “contro”, in aperto conflitto delegittimante nei confronti dell’esigenza, un tempo fortemente sentita, non solo da noi “addetti ai lavori”, di puntare ad un cambiamento radicale ed esteso dell’impianto, del funzionamento, della prassi, dell’immagine stessa di scuola; più in generale, sento come opportuna l’esigenza di chiarirci i termini del quando, del dove e del come di quel ribaltamento ideologico così drastico che ha permesso, anzi favorito l’emergere e lo svilupparsi, a livello di opinione pubblica, della cultura pedagogica che ho inteso (provocatoriamente?) etichettare come regressista, in un intervento rimasto senza eco sulla rivista online “Education 2.0” (http://www.educationduepuntozero.it/didattica-e-apprendimento/c-era-volta-3074077045.shtml) . “Regressista” appunto perché contro-progressista e dunque contro-riformista.
Fin qui, io credo, tutti i presenti al convegno, o almeno quelli che più direttamente e attivamente hanno vissuto il periodo 1970-2010, sono d’accordo. Ci siamo persi l’ondata progressista, o meglio ce la siamo persa, per parafrasare un’epica vignetta di Altan.
Ma perché questo, e per quale ragione?
È difficile che ci si possa dividere nel constatare sia il cambiamento nella direzione del vento sia il disagio che attanaglia la cultura scolastica progressista a fronte della proterva supremazia di una cultura scolastica di stampo regressista. C’è bisogno di fare esempi? No, basta sfogliare i quotidiani e più ancora sintonizzarsi su qualche canale televisivo per constatare che temi come quelli del ritardo, del disadattamento, dell’esclusione (per riprendere solo tre tra “I problemi sul tappeto” indicati da Bruno Ciari in un articolo comparso su “Riforma” nel gennaio del 1970, e ripreso, assieme a tanti altri, da Alberto Alberti nel volume del 1972 per gli Editori Riuniti La grande disadattata) bene, quegli stessi temi, pur mantenendo attualità, hanno drasticamente cambiato di segno. Non è alla scuola che oggi si attribuisce la responsabilità, nemmeno una parte solo, del disadattamento, come era nelle analisi e nelle intenzioni di chi, come noi, mirava a fare uscire l’istituzione dalla sua condizione di “palude placida” (è ancora Ciari che parla), ma alle vittime stesse di tale situazione, ai disadattati, vecchi o nuovi che siano, comunque rispondenti all’immagine di alunni in ritardo perché distratti, o svogliati, o incapaci, insomma “non meritevoli”. E, a suggellare il ricorso a questo marchingegno antichissimo ma evidentemente ancora efficace, si chiama in causa il ruolo che in tutto ciò sarebbe stato svolto da una pedagogia progressista icasticamente (e comicamente) designata come “sessantottismo”. Eccoci dunque qui, non testimoni passivi di una tale vicenda, ma impegnati, io auspico, a riflettere non solo del nostro ma di tutto il villaggio della scuola, e del suo territorio: non per sopravvivere, ma per vivere, e sfuggire al ricatto che viene dal sentirsi nella poco piacevole condizione di silenti “cornuti e mazziati”.
Sull’analisi di quanto ha portato noi tutti, e il mondo della scuola italiana nel suo complesso, da quella a questa condizione, vale a dire dal progressismo al regressismo, o, se vogliamo essere più crudi, sull’accidentato percorso che ha condotto dal sentirci, noi, “la meglio gioventù” fino al trovarci oggi alle prese con una condizione di “vecchiezza” (politica intendo) che “peggio” di così sembrerebbe non poter essere, è urgente aprire un confronto, anche “franco”, come si diceva un tempo per additare situazioni di conflitto. Mi auguro che il riferimento ideale all’esperienza di Bruno Ciari ci aiuti a farlo.
Su tutta questa faccenda voglio uscire immediatamente allo scoperto. Non penso che la cultura controriformista o che la pedagogia regressista siano venute solo ed esclusivamente dal di fuori dallo spazio occupato da noi e dai nostri ideali, né tantomeno siano venute dalle crisi di nostre realizzazioni materiali (che, onestamente, si sono avute in minima parte: le realizzazioni intendo). Non lo penso ora, e del resto l’ho scritto anche nell’articolo prima richiamato, dove parlo di una pedagogia regressista che “non guarda più al futuro con speranza, ma volge il suo sguardo al passato, rimpiangendolo; e si tratta di quel passato che la cultura progressista aveva messo fortemente in discussione”; e dove, chiedendomi come mai la pedagogia progressista sia così “silente, afasica”, propongo due linee di interpretazione della crisi in atto: “La prima vede nella crisi di quel pensiero l’effetto della ‘vittoria drogata’ che il pensiero regressista si sarebbe assicurata soprattutto tramite il sostegno avuto dai media e da un’opinione pubblica sensibile a rappresentazioni fortemente semplificate dello scenario scolastico (del tipo ‘si ridia serietà agli studi’). La seconda individua all’interno della cultura progressista delle debolezze costitutive che il tempo e la limitatezza dei risultati raggiunti sul campo avrebbero portato alla luce”. Sinceramente, stare dalla parte della prima rappresentazione mi sembra paralizzante e dunque perdente; stare con la seconda so per certo che produce ferite sul nostro stesso corpo ma so anche che sono ferite utili, se non necessarie perché si imbocchi la via d’uscita dall’attuale situazione (evitando di ricadere negli stessi errori del passato).
Così la penso oggi.
Ma attenzione! allo stesso modo la pensavo ieri, in tempi non sospetti, quando, per esempio al convegno ciariano di Certaldo del 1980 (“La scuola di tutti tra anni ’70 e anni ‘80”, in Enzo Catarsi e Andrea Spini, a cura di, L’esperienza educativa e politica di Bruno Ciari, Firenze, La Nuova Italia, 1982), cercavo (inutilmente?) di introdurre il tema di una “mancata realizzazione del progetto di riforma” emergente dal crogiuolo di idee e di esperienze degli anni Settanta, ancora fortemente segnate dall’attualità dell’elaborazione di Ciari. E lo facevo invitando tutti noi a fare i conti con gli elementi di continuità pedagogica inscritti nella cultura didattica interna alla scuola (il burocraticismo astratto delle circolari, il centralismo gerarchizzante dell’apparato organizzativo, la didattica conservativa della pubblicistica professionale) e nella cultura ad essa esterna (l’immagine apparentemente “astorica” e “decontestualizzata” di scuola fornita dai media, di fatto pienamente “storica” e “contestualizzata”).
Il testo dell’intervento può essere reperito al seguente indirizzo:
http://ltaonline.uniroma3.it/come-erravamo/640-la-scuola-di-tutti-tra-anni-70-e-anni-80.html
Cos’è cambiato da allora? Nulla direi, anzi le cose si sono ben più aggravate.
E , ovviamente, non ho smesso di coltivare questi brutti pensieri negli anni successivi, quando le cose hanno iniziato ad andare in una direzione diversa da quella auspicata e man mano si sono fatti sentire gli effetti della fase discendente della parabola, prima sul versante di quella che un tempo si chiamava “battaglia delle idee” poi anche sul versante dell’azione politica. Pensieri “brutti” perché costretti a prendere atto dell’enorme distanza tra i pensieri “buoni” e “belli” di Bruno Ciari e la realtà che nel frattempo era andata affermandosi.
Detto il altra forma (è questo il mio personale modo di rendere omaggio a Ciari) ero e permango dell’idea che troppo presto abbiamo smesso di fare i conti con i reali “problemi sul tappeto”, troppo presto siamo andati convincendoci che le nostre idee di progresso pedagogico erano ampiamente condivise, troppo presto abbiamo “mollato” sul piano della tensione ideale, consentendo al politico di fare della scuola niente più che un tema (e peggio ancora una risorsa) elettorale. Troppo presto abbiamo abbandonato l’idea che il passaggio da una scuola di impianto elitario ad una “democratica di massa” comportasse un ripensamento profondo della sua identità, anche sul piano dei saperi proposti (“demolire i modelli culturali antiquati e autoritari”, ammonisce Ciari). Troppo presto ci siamo dimenticati del suo (di Ciari) invito a non risolvere soltanto sul piano di un ammodernamento di facciata “il contrasto tra la vita di fuori, in cui si moltiplicano gli stimoli, i veicoli d’informazione, la disponibilità di strumenti e prodotti raffinati, il dinamismo e la mobilità, contro la decrepitezza polverosa e squallida delle culture scolastiche”. Troppo presto noi universitari abbiamo deposto le armi della ricerca e del confronto aperto, necessarie perché si arrivasse a riconoscere legittimità piena ad una cultura pedagogica tradizionalmente intesa, nel nostro paese, come marginale e povera e subordinata al potere (o, come oggi spesso si sente dire, responsabile di aver subordinato alla propria pochezza di pensiero la stessa decisione politica).
Ma c’è anche dell’altro. Non è la prima volta che richiamo questo punto, l’ho fatto anche in un saggio (La scuola dei tre no, Laterza) uscito nel 2003, quando ormai le ferite inferte dalla vicenda del ministero Luigi Berlinguer (per le tante cose rimaste sospese, penso si potrebbe parlare anche di “mistero Luigi Berlinguer”), insomma, quando quelle lacerazioni sul nostro e sull’altrui tessuto si potevano considerare rimarginate, e dunque era legittimo pensare di poter discutere serenamente della vicenda lasciataci alle spalle con la “riforma bloccata”: cosa che poi assolutamente non si è verificata, intendo almeno la discussione tra di noi, e che invece gli “altri”, gli artefici della pedagogia regressista (non solo i Della Loggia o gli Israel, ma anche tutti coloro che, in quanto insegnanti, cittadini, studenti, si sono trovati soli e scoperti di fronte ai “problemi sul tappeto”), hanno strumentalmente assunto come argomento polemico col quale far passare le loro idee: idee, si badi bene, di fatto non nuove ma capaci, in assenza di altre motivate e convincenti prese di posizione, di presentarsi come reazione ad uno status quo immaginario e immaginato, però descritto come reale. In altri termini, noi avevamo creduto, prima, in un mondo che di fatto non c’era (parlo del trionfo delle “magnifiche sorti e progressive” della pedagogia progressista), loro stavano iniziando a giocare sulla e della nostra credulità per costruire una reazione reale ad una situazione immaginaria e immaginata. In quella situazione, quando, per intenderci, stava venendo allo scoperto un simile meccanismo, inscritto nel progetto del ministero Moratti ma non circoscritto a quel progetto (come si è capito dopo con l’affermarsi del ben più drastico ed esteso piano del ministero/non mistero Tremonti/Gelmini), pensavo che ci potesse essere ancora un minimo di volontà di avviare una discussione seria tra di noi, in quanto testimoni diretti di una parabola discendente prima culturale poi politica, un confronto, intendevo e tuttora intendo, attorno alle ragioni prima di tutto interne di un simile esito, a dir poco imbarazzante, delle nostre idee e dei nostri ideali. Niente, non se n’è fatto nulla, e anzi abbiamo assistito paralizzati alla nascita e alla diffusione della leggenda di una riforma Berlinguer affermatasi e in un qualche modo completatasi con il concorso di Moratti. Date queste premesse, sarebbe stato sciocco da parte degli ideologi del piano Berlusconi non profittare di un campo lasciato totalmente sgombro, per colonizzarlo e volgerlo a ben altri fini (dovendo risparmiare, quale occasione migliore per farlo che tagliare i rami secchi? E di che cosa la gente nel frattempo si era seccata di più che dell’annuncio di una riforma che doveva arrivare e mai arrivava e poi le si è detto essere avvenuta, senza che nel frattempo nulla di sostanziale fosse stato cambiato, se non nella disponibilità di risorse?).
Dicevo, allora ci poteva essere spazio per discutere, perché gli avvenimenti erano ancora caldi e la memoria degli anni passati risultava ancora viva. Oggi tutto è più difficile, dopo che il campo è stato desertificato e colonizzato.
Ma tant’è, non è il caso di demordere, al contrario dobbiamo riabilitarci a mordere e ingerire sapere pedagogico, politico, culturale. E come farlo se non procurando a noi stessi una sana digestione di quanto ingerito precedentemente?
Ecco, una cosa che non mi va giù e di cui avevo parlato nel volume del 2003 era ed è il fatto che all’interno della cultura pedagogica e scolastica progressista e riformista, quella, va detto, che faceva capo al gruppo di “Riforma della Scuola”, non tutto era pacifico, né c’era omogeneità di vedute, anche su cose di sostanza come quella dell’identità da attribuire al sistema scolastico nel suo complesso. Inevitabilmente, quelle differenziazioni erano destinate a venir fuori anche sul piano della decisione politica (come di fatto è stato con la vicenda del ministero Berlinguer).
Mi scuso dall’autocitazione, un po’ lunga, ma è l’ultima.
“Allo scoccare della riforma dei cicli è emersa, dall’interno della popolazione scolastica che faceva riferimento all’area del centrosinistra, una divisione netta. È un contrasto che sussiste tuttora e che vede, da una parte, chi pensa che la scuola si sia troppo poco compromessa con l’universo esterno, dall’altra parte chi ritiene che l’abbia fatto fin troppo. Com’è evidente, sono visioni pedagogiche alternative, la prima destinata a confluire almeno in parte nell’utopia, la seconda destinata a confluire, almeno in parte, nell’ideologia: per un verso fare della scuola il nucleo di generazione di un nuovo ordine socioculturale, per un altro contrastare con la scuola la degenerazione in atto nell’uso mondano dei saperi. Fino alla svolta della metà degli anni Novanta, la condizione di opposizione perenne aveva consentito alla sinistra di far convivere al suo interno idee così difformi, e anche di articolarne l’azione su due fronti pedagogici diversi, quello della pedagogia popolare, più sensibile all’idea di una scuola coinvolta nel mondo, e quello della pedagogia liceale, più sensibile all’idea di una scuola riservata rispetto al mondo. Con l’assunzione di responsabilità di governo (e di riforma!) e con la necessità di trovare punti di convergenza dentro uno schieramento quanto mai eterogeneo, questa lacerazione interna alla sinistra pedagogica è venuta alla luce. In più, sorge il sospetto che il passaggio dalla poesia della formulazione politica del progetto di riforma alla prosa della sua gestione/attuazione abbia segnato il passaggio da una condizione di prevalenza della prima a una condizione di prevalenza della seconda delle anime di cui ho detto” (La scuola dei tre no, cit., pp. 17-18; il testo del primo capitolo del volume può essere reperito al seguente indirizzo: http://ltaonline.uniroma3.it/come-erravamo/641-la-scuola-dei-tre-no-cap-i.html).
Sia chiaro, non sono contro la dialettica, anche aspra, tra posizioni diverse. Al contrario, penso che il confronto delle opinioni e dei punti di vista, pure quello dei progetti sia il sale della cultura e della democrazia. E anche della politica. Dunque, se richiamo l’attenzione sull’originaria presenza di queste due anime, la socio-educativa e la meritocratico-istruttiva, all’interno dello stesso spazio di elaborazione non è per sostenere che la crisi successiva è avvenuta a causa di tale convivenza. Al contrario, penso che sia avvenuta perché una delle due anime è stata messa a tacere, e si tratta di quella più vicina alla testimonianza di Ciari. Per tutti gli anni Settanta le due matrici hanno dialogato e trovato pure una composizione politica, impersonandosi emblematicamente in due figure di parlamentari di spicco come Giorgio Bini e Marino Raicich; tutto ciò perché c’era chi portava a sintesi il confronto, e quel “chi” non era un singolo, tantomeno “il Partito”, ma coincideva con l’espressione di una cultura condivisa, anche da chi militava altrove, all’interno della quale la scuola era intesa come problema strategico per la crescita e lo sviluppo della società e non come questione locale di trasmissione del sapere e di coltivazione degli addetti a tale funzione. Poi, nel momento più alto della parabola, è iniziata la fase discendente. Si pensava di aver conquistato il Palazzo d’Inverno? Non so. So però che è stata mollata la presa, prima sul confronto delle idee poi sull’azione politica. Certo, alcuni fattori esterni hanno contribuito all’inaridimento: si pensi soltanto al fatto che nel giro di pochi anni questo dibattito non ha più trovato sponde editoriali (La Nuova Italia e gli Editori Riuniti, riferimenti di base per tale confronto pubblico, sono scomparsi dalla scena). Ma c’è stata anche una involuzione sul piano dell’orientamento politico generale (ovviamente non disgiunta da quanto nel frattempo avveniva sul piano generale, quello delle sorti complessive del paese), che ha condotto/costretto a delegare il problema della scuola all’associazionismo sindacale, professionale, accademico.
Aver perso i contatti con quell’anima “storica”, attenta, come Ciari insegna, ai contenuti, alle tecniche didattiche, al contesto socio-culturale (mi accorgo di aver usato, per questo elenco, termini che più scolastici di così non potrebbero essere), e non essere stati capaci di tenerla in vita: ecco, è da qui, da questa constatazione, e dal confronto sulle ragioni di quanto è avvenuto, che, io credo, possiamo cominciare a reagire alla reazione.

* Intervento al convegno
Bruno Ciari e la controriforma della scuola
Riflessioni in occasione del 40° della morte
Firenze, 22 gennaio 2011